
Ma cosa c'entra l'Artemia salina con il deserto libico?
Ho lavorato per la Missione Archeologica Italiana in Libia per diversi anni ed è stata una magnifica esperienza: il Sahara Libico è una delle meraviglie presenti sulla terra, tanto che la zona del Tadrart Acacus è stata dichiarata patrimonio dell'Unesco, senza parlare dei magnifici siti archeologici di Epoca Romana presenti sulla costa, tra Tripolitania e Cirenaica, come Cyrene, Leptis Magna e Sabratha. Ma di questo e della mia avventura alla scoperta di Sabratha parlerò un'altra volta. Qui ad essere protagonisti sono i Laghi Gabraon o Gabroun, o Gabraoun...dopo un po' di tempo in con i libici ti accorgi che cambiano veramente il modo di pronunciare i nomi dei luoghi da un giorno all'altro, quindi nnon c'è da stupirsi del proliferare di denominazioni in rete. Non ringrazierò mai abbastanza il mio capo archeologo per questo regalo!! Arrivare ai laghi è già di per se un'esperienza emozionante: ci si inoltra nel deserto di di dune sabbiose dell' Idehan o Erg di Ubari, in Fezzan, nella parte sudoccidentale del Sahara libico, e dopo diverse ore di percorso in 4x4 aggredendo le dune con decisione per evitare di rimanere incagliati sulla loro cima con la parte centrale dell'auto, e scendendo a pendenze che avrei creduto impossibili, da lontano si intravedono dei piccoli punto verdi e azzurri nel mare di sabbia. I laghi. Gabraon è il nome di uno dei più grandi, alcuni sono secchi e si può camminare sulle zolle asciutte rischiando un'insolazione (come ho fatto io) oppure fare il bagno nelle acque salatissime dei più profondi, dove si galleggia anche se non si sa nuotare, proprio come nel Mar Morto (cosa che ho evitato di fare per rispetto del senso del pudore femminile che nei paesi arabi è differente e di entrarci vestita non avevo voglia...). Sulle dune altissime c'era chi sciava, andava in slittino, si rotolava...un vero parco giochi naturale insomma. Ma la cosa più affascinante è stata la storia raccontataci dalle nostre guide Tuareg, sulla popolazione più povera del mondo, i Dauada che potete vedere in alcune foto cliccando sul link ad un articolo scritto quando ancora non erano stati allontanati dai loro villaggi.
Ho lavorato per la Missione Archeologica Italiana in Libia per diversi anni ed è stata una magnifica esperienza: il Sahara Libico è una delle meraviglie presenti sulla terra, tanto che la zona del Tadrart Acacus è stata dichiarata patrimonio dell'Unesco, senza parlare dei magnifici siti archeologici di Epoca Romana presenti sulla costa, tra Tripolitania e Cirenaica, come Cyrene, Leptis Magna e Sabratha. Ma di questo e della mia avventura alla scoperta di Sabratha parlerò un'altra volta. Qui ad essere protagonisti sono i Laghi Gabraon o Gabroun, o Gabraoun...dopo un po' di tempo in con i libici ti accorgi che cambiano veramente il modo di pronunciare i nomi dei luoghi da un giorno all'altro, quindi nnon c'è da stupirsi del proliferare di denominazioni in rete. Non ringrazierò mai abbastanza il mio capo archeologo per questo regalo!! Arrivare ai laghi è già di per se un'esperienza emozionante: ci si inoltra nel deserto di di dune sabbiose dell' Idehan o Erg di Ubari, in Fezzan, nella parte sudoccidentale del Sahara libico, e dopo diverse ore di percorso in 4x4 aggredendo le dune con decisione per evitare di rimanere incagliati sulla loro cima con la parte centrale dell'auto, e scendendo a pendenze che avrei creduto impossibili, da lontano si intravedono dei piccoli punto verdi e azzurri nel mare di sabbia. I laghi. Gabraon è il nome di uno dei più grandi, alcuni sono secchi e si può camminare sulle zolle asciutte rischiando un'insolazione (come ho fatto io) oppure fare il bagno nelle acque salatissime dei più profondi, dove si galleggia anche se non si sa nuotare, proprio come nel Mar Morto (cosa che ho evitato di fare per rispetto del senso del pudore femminile che nei paesi arabi è differente e di entrarci vestita non avevo voglia...). Sulle dune altissime c'era chi sciava, andava in slittino, si rotolava...un vero parco giochi naturale insomma. Ma la cosa più affascinante è stata la storia raccontataci dalle nostre guide Tuareg, sulla popolazione più povera del mondo, i Dauada che potete vedere in alcune foto cliccando sul link ad un articolo scritto quando ancora non erano stati allontanati dai loro villaggi.
Ho trovato in rete la storia raccontata molto bene da Fausta Filbier, e dato che fila perfettamente con quella che ho sentito io, la riporto qui di seguito:
Gheddafi e i mangiatori di vermi Diario: Anno V – numero 12 – 22/28 Marzo 2000
Dune alte più di cento metri, infinite distese di sabbia color ocra. E minuscoli laghi salati incastonati tra una duna e l’altra, orlati di palme da dattero e tamerici. Siamo nel paese di Muhammar Gheddafi, forse nel suo angolo più nascosto ma anche più spettacolare: il deserto della Libia del Sudovest. È questo selvaggio mondo la patria dei Dauada, una popolazione autoctona che, proprio per ordine del Colonnello, è stata costretta a lasciare per sempre i suoi laghi, le sue dune, e a trasferirsi in villaggi moderni, di vetro e di mattoni, abbandonando non solo le case, ma anche tradizioni secolari.
Strana storia, quella dei Dauada: sono sopravvissuti, per quasi 2 mila anni, alle invasioni e alle scorrerie di romani, arabi, turchi, tuareg, italiani e francesi, per poi soccombere per volere di Gheddafi. Strano perché, proprio per il loro modo di vivere povero, essenziale, ma libero, lo stesso Colonnello nel 1973 li elevò a modello nazionale: un dignitoso esempio di vita fatta di stenti e di rinunce, da contrapporre alle abitudini agiate e oziose dei conterranei urbanizzati, schiavi del consumismo e dei miti dell’Occidente.
Difficile sapere con certezza se a convincere Gheddafi a compiere questa deportazione di massa siano stati l’estrema povertà o l’estrema libertà dei Dauada. Certo è che in questa parte della Libia, nonostante l’arrivo della Jamahirya, del cemento, delle linee telefoniche, dell’energia elettrica, la loro vita è rimasta praticamente uguale a quella di millenni fa. Nulla è cambiato da quando gli arabi li battezzarono, con disprezzo, «mangiatori di vermi», perché di dùd, vermi, si cibavano. In realtà proprio vermi non sono: si tratta di minuscole larve commestibili, simili a crostacei dal colore rossastro (la Arthemia salina o Arthemia oudneii, così chiamata in ricordo della spedizione in cui il 12 giugno1824 perse la vita il celebre esploratore inglese Walther Oudney), che vivono nei laghi salati di questo angolo di deserto.
Siamo nell’erg Ubari, a nord della valle del wadi Adjal, in pieno Fezzan, la terza regione storica della Libia, insieme a Tripolitania e Cirenaica. Uno dei luoghi più belli del Nordafrica, circondato da tali e immense distese desertiche da essere una delle più incontaminate e irraggiungibili regioni del Sahara. Anche perché a nord più di mille chilometri la separano da Tripoli e dal Mediterraneo. Lo stesso erg Ubari si estende per quasi 500 chilometri: un labirinto di finissima sabbia di tutte le sfumature del giallo. Oggi per attraversarlo in jeep si impiegano cinque giorni.
Tra queste dune incredibili, alte più di cento metri, si trovano i laghi Mandara. Un miraggio nel deserto, di acque perenni e salate. Ma da dove viene l’acqua? Riaffiora dopo essere scivolata dai vicini rilievi del Messak e del Tassili? Oppure è acqua fossile che riemerge? Il dibattito tra geologi e geografi è ancora aperto. Certo è che oggi i laghi in mezzo al deserto fezzanese sono 21: di questi, 15 sono perenni (uno di acqua dolce garantisce da secoli la sopravvivenza dei Dauada), quattro stagionali, con acqua solo nei mesi invernali, e due ormai prosciugati. Pozze lunghe fino a 600 metri, profonde decine di metri e circondate da palme lussureggianti. Un eden tra le aride dune dell’erg.
ORIGINI MISTERIOSE. Ed è appunto in questo luogo magico ma crudele che vivono da millenni i Dauada. Da censimenti italiani nel 1937, sulle rive di questi laghi, nei villaggi di Trouna, Mandara e Gabr’ Aoun, vivevano 336 Dauada. Piccola etnia dalla pelle scura e di bassa statura, sono forse i discendenti di una popolazione indigena del Fezzan. O forse sono gli eredi di quelle popolazioni preistoriche che a pochi chilometri di distanza, sulle pareti del Tassili e del Messak, dipinsero e scolpirono giraffe, coccodrilli, ippopotami e struzzi. Diecimila anni fa questo angolo di Sahara era una savana ricca di acqua, fiumi, piante e animali: gli abitanti di allora ne immortalarono la vita nei graffiti che oggi si possono ammirare sulle rocce, nelle caverne, negli wadi. O forse sono i figli degli abitanti di Garama, la capitale dei leggendari garamanti di romana memoria, abbandonata nei secoli della sua decadenza (VII e VIII) per rifugiarsi tra le dune del deserto. Se l’origine dei Dauada rimane incerta, consolidate e millenarie sono le loro tradizioni e i loro riti. Avevano un capostipite mitologico, il vecchio Aoun, che fu sepolto nelle sabbie della grande duna che domina uno dei più bei laghi dell’erg, il Gabr’Aoun (che significa appunto tomba di Aoun).
La loro vita quotidiana era piena di tabù e superstizioni. Così soltanto le donne nate nella tribù avevano il diritto di pescare i vermi che assicuravano la base dell’alimentazione; era però vietato loro di entrare nell’acqua durante le mestruazioni e i 40 giorni successivi al parto. Erano convinti che la minima infrazione a queste regole avrebbe fatto sparire per lungo tempo quest’unica risorsa alimentare. La pesca si effettuava con un guadino munito di una lunga rete dalle maglie molto sottili, e aveva luogo ogni due giorni. La marcia delle donne, vecchie e giovani, nel limo, era lenta e ossessionante. I crostacei si trovavano mischiati, in fondo alla rete, a un’alga chiamata danga, dalla quale era impossibile separarli. Il tutto formava così una pasta bruna con la quale, dopo essere stata lavata e impastata, venivano formati dei pani. Essiccati al sole per diversi giorni, venivano poi sepolti sotto la sabbia. Dopo qualche mese questo impasto nero dal forte odore di pesce avariato era pronto per essere mangiato, con una salsa piccante o mescolato a datteri schiacciati. Un alimento, secondo gli scienziati che lo hanno analizzato, dall’alto valore proteico. E se le donne si occupavano della pesca, gli uomini della tribù si occupavano dell’altra attività redditizia: la raccolta del natron. Ovvero un miscuglio di carbonato di sodio naturale con altri sali sodici; in parole semplici, il preziosissimo, indispensabile sale.
NIENTE CAMMELLI, MA PIEDI SPECIALI. Il carbonato di sodio si forma per evaporazione, sempre in questi laghi del deserto, sulla superficie dell’acqua e specialmente d’estate si deposita sulle rive formando una crosta biancastra. Troppo poveri per possedere cammelli, garantire trasporti e vendere i loro prodotti, i Dauada erano così totalmente tributari dei carovanieri che una volta l’anno venivano tra queste dune isolate a comprare il sale per un prezzo irrisorio, e lo trasportavano a Tripoli, Algeri, Tunisi. Il natron veniva mescolato al tabacco da presa o da masticare, entrava nella lavorazione dei prodotti da conciare, accelerava la cottura della carne, veniva somministrato a cammelli, cavalli e asini per farli ingrassare. Era infine un elemento essenziale della farmacopea indigena.
Per arrampicarsi meglio sulle ripide dune intorno ai laghi e non affondare nella molle sabbia del Sahara, nel corso dei secoli i Dauada avevano persino trovato un modo per camminare velocemente e con poca fatica. I loro piedi così si sono deformati: corti, molto arcuati, talloni sottili e piante larghe, alluci molto sviluppati rispetto alle altre dita. Un esempio perfetto di adattamento all’ambiente circostante. Un popolo fossile, sono stati definiti da chi li ha studiati. Rappresentanti viventi di una preistoria da non dimenticare. La loro era sicuramente una vita dura, povera, essenziale. Dei diversi, non integrati in alcun modo nel moderno stato concepito da Gheddafi. Ed è per questo, almeno ufficialmente, che tra l’agosto e l’ottobre 1990 il Colonnello decide la deportazione di tutti gli abitanti dei laghi. Circa 200 persone vengono così trasferite, a bordo di grossi camion, nelle moderne, anonime case della Nuova Gabroun, nella valle dell’Adjal, vicino a Germa. «Laggiù viviamo bene», mi racconta Abu Salah, 34 anni, dauada purosangue, oggi guida-autista di jeep, che porta i turisti ad ammirare questi laghi e le rovine del suo villaggio. All’epoca del «trasloco» aveva poco più di 20 anni e nei suoi ricordi del modo di vivere antico è rimasto ben poco. Abu è al contrario molto fiero della sua moderna casa. Le antiche tradizioni? Ormai non servono più, mi dice. Se vogliamo il sale, lo compriamo nel negozio sotto casa. L’Artemia? Le donne vengono ancora a raccoglierla. Certo, non per una necessità alimentare ma, si dice, perché l’Artemia avrebbe virtù afrodisiache. Le donne arrivano così oggi a Mandara a bordo di potenti jeep. Senza fatica. E non camminano più scalze, in quel vecchio modo, strano ma efficace, di procedere sulle dune scoscese. Anzi, ai piedi indossano comode, pratiche Nike.
E questa ultima frase è stata confermata da Ali, una delle mie Tuareg, che pochi mesi prima aveva assistito stupito alla discesa dall'auto di una di queste donne, che si è poi immersa completamente vestita nelle acque del lago e munita di un largo setaccio ha iniziato a raccogliere L'Artemia salina.
Le tradizioni sono dure a morire.
Gheddafi e i mangiatori di vermi Diario: Anno V – numero 12 – 22/28 Marzo 2000
Dune alte più di cento metri, infinite distese di sabbia color ocra. E minuscoli laghi salati incastonati tra una duna e l’altra, orlati di palme da dattero e tamerici. Siamo nel paese di Muhammar Gheddafi, forse nel suo angolo più nascosto ma anche più spettacolare: il deserto della Libia del Sudovest. È questo selvaggio mondo la patria dei Dauada, una popolazione autoctona che, proprio per ordine del Colonnello, è stata costretta a lasciare per sempre i suoi laghi, le sue dune, e a trasferirsi in villaggi moderni, di vetro e di mattoni, abbandonando non solo le case, ma anche tradizioni secolari.
Strana storia, quella dei Dauada: sono sopravvissuti, per quasi 2 mila anni, alle invasioni e alle scorrerie di romani, arabi, turchi, tuareg, italiani e francesi, per poi soccombere per volere di Gheddafi. Strano perché, proprio per il loro modo di vivere povero, essenziale, ma libero, lo stesso Colonnello nel 1973 li elevò a modello nazionale: un dignitoso esempio di vita fatta di stenti e di rinunce, da contrapporre alle abitudini agiate e oziose dei conterranei urbanizzati, schiavi del consumismo e dei miti dell’Occidente.
Difficile sapere con certezza se a convincere Gheddafi a compiere questa deportazione di massa siano stati l’estrema povertà o l’estrema libertà dei Dauada. Certo è che in questa parte della Libia, nonostante l’arrivo della Jamahirya, del cemento, delle linee telefoniche, dell’energia elettrica, la loro vita è rimasta praticamente uguale a quella di millenni fa. Nulla è cambiato da quando gli arabi li battezzarono, con disprezzo, «mangiatori di vermi», perché di dùd, vermi, si cibavano. In realtà proprio vermi non sono: si tratta di minuscole larve commestibili, simili a crostacei dal colore rossastro (la Arthemia salina o Arthemia oudneii, così chiamata in ricordo della spedizione in cui il 12 giugno1824 perse la vita il celebre esploratore inglese Walther Oudney), che vivono nei laghi salati di questo angolo di deserto.
Siamo nell’erg Ubari, a nord della valle del wadi Adjal, in pieno Fezzan, la terza regione storica della Libia, insieme a Tripolitania e Cirenaica. Uno dei luoghi più belli del Nordafrica, circondato da tali e immense distese desertiche da essere una delle più incontaminate e irraggiungibili regioni del Sahara. Anche perché a nord più di mille chilometri la separano da Tripoli e dal Mediterraneo. Lo stesso erg Ubari si estende per quasi 500 chilometri: un labirinto di finissima sabbia di tutte le sfumature del giallo. Oggi per attraversarlo in jeep si impiegano cinque giorni.
Tra queste dune incredibili, alte più di cento metri, si trovano i laghi Mandara. Un miraggio nel deserto, di acque perenni e salate. Ma da dove viene l’acqua? Riaffiora dopo essere scivolata dai vicini rilievi del Messak e del Tassili? Oppure è acqua fossile che riemerge? Il dibattito tra geologi e geografi è ancora aperto. Certo è che oggi i laghi in mezzo al deserto fezzanese sono 21: di questi, 15 sono perenni (uno di acqua dolce garantisce da secoli la sopravvivenza dei Dauada), quattro stagionali, con acqua solo nei mesi invernali, e due ormai prosciugati. Pozze lunghe fino a 600 metri, profonde decine di metri e circondate da palme lussureggianti. Un eden tra le aride dune dell’erg.
ORIGINI MISTERIOSE. Ed è appunto in questo luogo magico ma crudele che vivono da millenni i Dauada. Da censimenti italiani nel 1937, sulle rive di questi laghi, nei villaggi di Trouna, Mandara e Gabr’ Aoun, vivevano 336 Dauada. Piccola etnia dalla pelle scura e di bassa statura, sono forse i discendenti di una popolazione indigena del Fezzan. O forse sono gli eredi di quelle popolazioni preistoriche che a pochi chilometri di distanza, sulle pareti del Tassili e del Messak, dipinsero e scolpirono giraffe, coccodrilli, ippopotami e struzzi. Diecimila anni fa questo angolo di Sahara era una savana ricca di acqua, fiumi, piante e animali: gli abitanti di allora ne immortalarono la vita nei graffiti che oggi si possono ammirare sulle rocce, nelle caverne, negli wadi. O forse sono i figli degli abitanti di Garama, la capitale dei leggendari garamanti di romana memoria, abbandonata nei secoli della sua decadenza (VII e VIII) per rifugiarsi tra le dune del deserto. Se l’origine dei Dauada rimane incerta, consolidate e millenarie sono le loro tradizioni e i loro riti. Avevano un capostipite mitologico, il vecchio Aoun, che fu sepolto nelle sabbie della grande duna che domina uno dei più bei laghi dell’erg, il Gabr’Aoun (che significa appunto tomba di Aoun).
La loro vita quotidiana era piena di tabù e superstizioni. Così soltanto le donne nate nella tribù avevano il diritto di pescare i vermi che assicuravano la base dell’alimentazione; era però vietato loro di entrare nell’acqua durante le mestruazioni e i 40 giorni successivi al parto. Erano convinti che la minima infrazione a queste regole avrebbe fatto sparire per lungo tempo quest’unica risorsa alimentare. La pesca si effettuava con un guadino munito di una lunga rete dalle maglie molto sottili, e aveva luogo ogni due giorni. La marcia delle donne, vecchie e giovani, nel limo, era lenta e ossessionante. I crostacei si trovavano mischiati, in fondo alla rete, a un’alga chiamata danga, dalla quale era impossibile separarli. Il tutto formava così una pasta bruna con la quale, dopo essere stata lavata e impastata, venivano formati dei pani. Essiccati al sole per diversi giorni, venivano poi sepolti sotto la sabbia. Dopo qualche mese questo impasto nero dal forte odore di pesce avariato era pronto per essere mangiato, con una salsa piccante o mescolato a datteri schiacciati. Un alimento, secondo gli scienziati che lo hanno analizzato, dall’alto valore proteico. E se le donne si occupavano della pesca, gli uomini della tribù si occupavano dell’altra attività redditizia: la raccolta del natron. Ovvero un miscuglio di carbonato di sodio naturale con altri sali sodici; in parole semplici, il preziosissimo, indispensabile sale.
NIENTE CAMMELLI, MA PIEDI SPECIALI. Il carbonato di sodio si forma per evaporazione, sempre in questi laghi del deserto, sulla superficie dell’acqua e specialmente d’estate si deposita sulle rive formando una crosta biancastra. Troppo poveri per possedere cammelli, garantire trasporti e vendere i loro prodotti, i Dauada erano così totalmente tributari dei carovanieri che una volta l’anno venivano tra queste dune isolate a comprare il sale per un prezzo irrisorio, e lo trasportavano a Tripoli, Algeri, Tunisi. Il natron veniva mescolato al tabacco da presa o da masticare, entrava nella lavorazione dei prodotti da conciare, accelerava la cottura della carne, veniva somministrato a cammelli, cavalli e asini per farli ingrassare. Era infine un elemento essenziale della farmacopea indigena.
Per arrampicarsi meglio sulle ripide dune intorno ai laghi e non affondare nella molle sabbia del Sahara, nel corso dei secoli i Dauada avevano persino trovato un modo per camminare velocemente e con poca fatica. I loro piedi così si sono deformati: corti, molto arcuati, talloni sottili e piante larghe, alluci molto sviluppati rispetto alle altre dita. Un esempio perfetto di adattamento all’ambiente circostante. Un popolo fossile, sono stati definiti da chi li ha studiati. Rappresentanti viventi di una preistoria da non dimenticare. La loro era sicuramente una vita dura, povera, essenziale. Dei diversi, non integrati in alcun modo nel moderno stato concepito da Gheddafi. Ed è per questo, almeno ufficialmente, che tra l’agosto e l’ottobre 1990 il Colonnello decide la deportazione di tutti gli abitanti dei laghi. Circa 200 persone vengono così trasferite, a bordo di grossi camion, nelle moderne, anonime case della Nuova Gabroun, nella valle dell’Adjal, vicino a Germa. «Laggiù viviamo bene», mi racconta Abu Salah, 34 anni, dauada purosangue, oggi guida-autista di jeep, che porta i turisti ad ammirare questi laghi e le rovine del suo villaggio. All’epoca del «trasloco» aveva poco più di 20 anni e nei suoi ricordi del modo di vivere antico è rimasto ben poco. Abu è al contrario molto fiero della sua moderna casa. Le antiche tradizioni? Ormai non servono più, mi dice. Se vogliamo il sale, lo compriamo nel negozio sotto casa. L’Artemia? Le donne vengono ancora a raccoglierla. Certo, non per una necessità alimentare ma, si dice, perché l’Artemia avrebbe virtù afrodisiache. Le donne arrivano così oggi a Mandara a bordo di potenti jeep. Senza fatica. E non camminano più scalze, in quel vecchio modo, strano ma efficace, di procedere sulle dune scoscese. Anzi, ai piedi indossano comode, pratiche Nike.
E questa ultima frase è stata confermata da Ali, una delle mie Tuareg, che pochi mesi prima aveva assistito stupito alla discesa dall'auto di una di queste donne, che si è poi immersa completamente vestita nelle acque del lago e munita di un largo setaccio ha iniziato a raccogliere L'Artemia salina.
Le tradizioni sono dure a morire.
![]() La gita al laghi è stato un momento di pura gioia e divertimento, ma il mio spirito scientifico non si è acuqietato e ho dovuto verificare la presenza di ciò che avevo letto sulle guide e sentito dai Tuareg di persona. Ho scattato questa foto sulle rive di uno dei laghi, superata la barriera di Phragmites e Tamarix. Le variegature scure della sabbia sono date dalla presenza dell'alghetta che vedete galleggiare inseme all'Artemia nel barattolo in alto. Cercherò di determinarla un giorno o l'altro, non dovrebbero essere tante le specie in grado di vivere in un ambiente del genere. Beh, i miei amici Tuareg hanno visto per la prima volta i "vermiciattoli" di cui avevano tanto sentito parlare, e quando hanno verificato che erano piccoli gamberetti è stata rivalutata anche leggermente la schifosità della dieta dei Dauda...leggermente.. |
![]() Da brava Naturalista avevo con me anche la cartina al tornasole per verificare il valore di Ph delle acque. Come ci si deve aspettare nei casi di salinità tanto elevata, ci troviamo davanti ad un colore verde petrolio/blu , il grado più alto della scala di basicità. Per fare casa un indicatore di Ph ci sono alcuni simpatici esperimenti, come utilizzare il succo di cavolo rosso, che vira di colore in presenza di liquidi acidi, come il succo di limone d esempio o basici, come il bicarbonato. Cliccate qui per ulteriori informazioni ed eventualmente preparare in casa le vostre cartine tornasole. In ambiente desertico è importante controllare spesso l'acidità delle proprie urine, che deve restare entro ad una certa soglia: se si beve troppo poco, e anche se non avete più sete può essere troppo poco, le urine si addensano e diventano troppo acide. In questo mdo il corspo reagisce cercando sal basici al suo stesso interno per tamponare questa acidità e li toglie di solito dalle ossa. Da un viaggio nel deserto se non si è accorti si può tornare oltre che disidratati e bruciacchiati, anche con un'osteroporosi incipiente. Quindi bere tanto e bere acqua ricca di sali minerali, in modo che non li dilavi lei stessa del nostro corpo. E stare ben coperti, come fanno le popolazioni locali, per non disidratarsi.
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